Benoit Delepine e Gustave Kervern sono fra i registi contemporanei più apprezzati e stimati in territorio francese, nonostante siano ancora poco conosciuti dal pubblico nostrano. A distanza di due anni dal loro, piccolo, ultimo lavoro (Near Death Experience, presentato nella sezione Orizzonti della 71esima Mostra del Cinema di Venezia) la coppia di cineasti torna sul grande schermo con una commedia dal retrogusto amaro, Saint Amour: opera che si inserisce nel filone cinematografico del “viaggio bucolico” incentrato sul vino, di cui è re indiscusso il bellissimo Sideways di Alexander Payne con Paul Giamatti.
Jean e suo figlio Bruno sono i protagonisti di un pellegrinaggio da sbronzi, nel disperato tentativo di poter affogare nel nettare i propri problemi: dalla morte della donna di famiglia ai difficili rapporti fra di loro.
Un’ odissea alcolica in una Francia anonima
Delepine e Kervern scelgono per questo Saint Amour i protagonisti di due dei loro lavori passati, rispettivamente il Gérard Depardieu di Mammuth e il Benoît Poelvoorde di La grand soir, divenuto nel frattempo un nome noto anche nel nostro Paese grazie al successo della commedia Dio esiste e vive a Bruxelles. È innegabile come i due attori da soli riescano a trainare una pellicola sicuramente carismatica e divertente, che sprofonda nella dissacrante disperazione di un viaggio alla ricerca del nulla, ma che risente troppo spesso di un ritmo altalenante e di una regia mai davvero incisiva.
La fotografia così chiara e definita (a tratti sciatta) non riesce infatti a sottolineare al meglio determinate scene, finendo per appiattire una storia potenzialmente ricca di spunti visivi e narrativi. È sicuramente divertente notare però come i due registi scelgano in una regione meravigliosa e bellissima della Francia proprio gli scorci più anonimi e grigi, quasi a voler sottolineare una precisa scelta stilistica che accompagna la delirante odissea alcolica. Questo gioco al ribasso, evidente nella povertà della messinscena, è forse il tratto caratteristico di una pellicola di certo non memorabile, ma incidentalmente trascinante.
Non è un Paese per contadini
Lo sforzo dei due cineasti è evidente, ma per una serie di ragioni (individuabili più sul piano delle immagini, che su quello prettamente narrativo) il loro nuovo Saint Amour non riesce a prendere il volo e, proprio come un garzone ubriaco, barcolla e inciampa lungo il percorso. Nonostante ciò, è davvero difficile in conclusione non fraternizzare con i due protagonisti: contadini in un mondo che li respinge, fieramente poveri e orgogliosamente ultimi.
Due “bamboccioni” dalla rozzezza e sincerità quasi commovente, sempre pronti a lanciarsi avidamente su di un buffet zeppo di salsicce ma che quando è il momento non si negano mai un abbraccio. Alla fine, come nella vita reale, ci si rende conto che è meglio vivere da alticci che da coscienti, e che le sconfitte (costanti nella filmografia dei due registi francesi) possono essere superate. Meglio se con un calice di vino dalla propria parte.