Rebecca (Margaret Qualley), una misteriosa e tagliente arrampicatrice sociale, entra nel “Santuario” di Zachary Wigon, regista al suo secondo film dopo un passato da critico cinematografico, bussando con decisione alla porta di una costosa suite d’albergo. La stanza, in cui si svolgerà tutta la narrazione, appartiene a Hal Porterfield (Christopher Abbott), figlio del fondatore della lussuosa catena di hotel, designato come successore (o “presunto tale”, come dice Rebecca) di una società di famiglia che vale miliardi di dollari. L’ascesa al potere di lui dipende da lei – almeno così sostiene la ragazza – e la sua convinzione di potercela fare da solo, di averne già tutte le capacità, non sembra mai davvero salda.
In pochi minuti, infatti, viene ammesso da entrambi i personaggi di star recitando una commedia e non molto tempo dopo è lo stesso regista a rivelare al pubblico ciò che i personaggi già sanno: Hal paga regolarmente Rebecca come dominatrice e la scena umiliante a cui stiamo assistendo non è altro che una proiezione di una sua fantasia erotica. Questo colpo di scena è solo la mossa iniziale di Sanctuary, una mano che il film gioca presto per avvertire chi guarda di rimanere in allerta fino alla fine.
Sanctuary | la recensione del film in concorso a RoFF17
Quello di Zachary Wigon è un thriller sul prendere e mantenere il controllo, sugli altri e su se stessi. Allo stesso modo, chi è dietro la macchina da presa sembra costantemente giocare con lo spettatore nel mostrare la propria padronanza del mezzo con grande sicurezza e sfacciataggine, per poi improvvisamente ritrarsi e apparire più incerto e dubbioso su cosa inquadrare o persino su cosa mettere a fuoco. Questo controllo sulla regia (e, specularmente, la sua costante messa in discussione) costituisce metà del successo del film. Nell’aspetto e nello stile, nel suono e nell’esecuzione, la mano di Wigon è percepibile in ogni fotogramma, fornendo stabilità quando la scena si poggia su dinamiche emotive in costante cambiamento e diventando improvvisamente più traballante quando i personaggi prendono in mano le redini della situazione.
Due attori in stato di grazia
Margaret Qualley, dopo la splendida prova in Maid, regala quella che è probabilmente la sua migliore performance cinematografica fino ad oggi, rifiutando di aderire ai cliché che generalmente guidano la caratterizzazione di questo tipo di personaggi su schermo e trovando invece una gamma emotiva complessa in grado di mettere in scena il paradosso di una donna che è pienamente in controllo delle sue azioni e persino di quelle del suo “sottoposto”, ma che in realtà si trova all’interno di un rapporto di forza economico e sociale completamente ribaltato. Qualley riesce a illuminare tutti gli angoli più oscuri del suo personaggio, descrivendolo prima feroce e poi incredibilmente vulnerabile. Fa per il film quello che Rebecca fa per Hal: afferrare una fantasia per il collo e renderla credibile con la propria spavalderia. Parallelamente, Abbott è abbastanza intelligente da interpretare il proprio ruolo senza mai davvero sciogliere il dubbio se il suo personaggio sia il “dweeb” che abbiamo visto lucidare il gabinetto per obbedire agli ordini di Rebecca o il rampollo viziato che con uno schiocco di dita può determinare la fine di una carriera.
Tra loro due, comincia presto una partita di tennis senza esclusioni di colpi, tanto avvincente per lo spettatore quanto è più marcato e visibile il gesto atletico degli sfidanti, quanto più è palpabile la loro tensione agonistica. Le transizioni luminose e quasi psichedeliche che sottolineano la suddivisione (non esplicita) in capitoli sono le uniche concessioni che il film fa allo spettatore, consegnando dei brevissimi momenti di tregua che gli consentono di riprendere fiato, di elaborare l’accaduto e accettare l’ennesimo mutamento della situazione e dei rapporti di forza tra i protagonisti.