In occasione della Giornata Internazionale della Donna, la redazione di NewsCinema ha pensato di consigliare ai propri lettori dieci film diretti da registe usciti tra il 2021 e il 2022. Un modo per celebrare autrici particolarmente interessanti, molte delle quali giovani ed emergenti, e per comprendere come il cinema stia cambiando (in meglio) anche grazie alla presenza sempre più importante (anche se non ancora sufficiente) di donne dietro la macchina da presa.
Candyman | Nia DaCosta
Il sequel di Candyman riprende direttamente la storia del film del 1992, scegliendo di narrarenuovamente quegli eventi in forma di backstory. Rimette in ordine la mitologia del lungometraggio originale utilizzando personaggi (e attori) del primo film e riprendendone direttamente il tema cruciale, cioè la riqualificazione del quartiere di Cabrini-Green a Chicago. Così, il film diretto da Nia DaCosta diventa un gentrification horror che scarta i quasi obbligatori richiami allo slasher anni ’80, in cui le morti avvengono in splendidi appartamenti dentro palazzi nuovi di zecca che sorgono a lato di edifici abbandonati, o in gallerie d’arte in cui espongono gli artisti che hanno popolato il quartiere dopo al riqualificazione, e i cui mostri si annidano nelle intercapedini o negli edifici abbandonati, non riqualificati e quindi dimenticati. DaCosta prende in mano una sceneggiatura scritta da Jordan Peele (Scappa – Get Out) e la esalta grazie ad una regia pulitissima, patinata ma anche consapevole di essere al lavoro su un horror classico.
CODA | Sian Hader
L’acronimo inglese CODA sta per “child of deaf adult”, figlio di adulto sordo. Il film omonimo prodotto da Apple TV+ e diretto dalla regista e sceneggiatrice statunitense Sian Heder ha infatti come protagonista un’adolescente che rientra in questa categoria. Ruby (Emilia Jones) è una ragazzina udente in una famiglia di persone sorde che sa cantare, ma avrebbe bisogno di scappare da casa sua per farlo. Un tenero racconto di formazione che è riuscito a ottenere tre nomination agli Oscar 2022, tra cui miglior film e miglior attore non protagonista per Troy Kotsur, la prima volta per un attore sordo. È l’immancabile “quota indie” degli Oscar di quest’anno.
The Matrix Resurrections | Lana Wachowski
A più di vent’anni dal capostipite, il film che ha riscritto completamente le leggi del cinema d’azione statunitense, Lana Wachowski, senza l’ausilio della sorella Lily, torna su Matrix, trovando in Neo un personaggio perfettamente in grado di rappresentare la sua condizione di autrice che si ritrova sola, monca, schiacciata dal successo del suo stesso franchise. Ed è per questo che il nuovo Matrix Resurrections esalta la necessità di essere in coppia proprio nel momento in cui la coppia che aveva ideato la saga si è divisa. Ma è ovviamente anche la prosecuzione di quel discorso sul maschile e il femminile come due elementi in equilibrio (questo sono Neo e Trinity nel film, il bianco e il nero del tao, come gli 1 e gli 0 del codice binario).
Lana Wachowski aderisce totalmente alla regola d’oro dei sequel americani (che devono per forza tornare sugli elementi vincenti dei loro originali) e la esaspera fino a rendere evidente la presa in giro. Resurrections cerca la reazione stizzita degli spettatori (innanzitutto i fan della saga), rivolgendosi ad un pubblico già abituato alla plateale riflessione del cinema su di sé e senza proporre nulla di interessante a chi invece vuole approcciare questo superfluo capitolo da appassionato di fantascienza. Persino l’azione, che proprio le sorelle Wachowski avevano rivoluzionato e che avevano dimostrato di saper utilizzare ancora benissimo in Sense 8, è qui avvilita e umiliata, risolta come un obbligo produttivo e mai utilizzata per raccontare qualcosa, come invece facevano i capitoli precedenti. La ricerca programmatica della sciatteria che trova il suo culmine in una scena dopo i titoli di coda che non annuncia nulla, assolutamente superflua e canzonatoria. Uno dei film più punk degli ultimi anni.
Shiva Baby | Emma Seligman
Lo shiva è la veglia funebre ebraica, quel momento in cui parenti e amici vanno a trovare la famiglia della persona estinta, portano da mangiare e conforto finendo per trovarsi tutti insieme e farsi i fatti propri. “Sugar baby” invece è un’espressione americana che identifica una ragazza che si fa mantenere da una persona più adulta in cambio di una relazione disimpegnata. Dall’unione di questi due termini nasce Shiva Baby, l’incredibile esordio di Emma Seligman che racconta di una ragazza che alla veglia funebre di un parente incontra il suo sugar daddy. Lui è sposato (con figli) ed ex collega del padre: l’imbarazzo è palpabile, amplificato dal fatto che alla veglia c’è anche una ex della protagonista. Due relazioni che per ragioni diverse non sono dichiarate e che creano il panico in mezzo ad una serie di terribili frecciatine dei parenti.
Titane | Julia Ducournau
È un cinema di corpi, quello di Julia Ducournau. E così il suo Titane è innanzitutto un racconto di due corpi sofferenti che si sfiorano e si amano (quello della ballerina-killer-figlia di Agathe Rousselle e quello del bodybuilder-pompiere-papà di Vincent London). Corpi che si uniscono nella danza, danneggiati prima dal mondo e poi da chi li abita, animali che si annusano, si riconoscono, si avvicinano per affrontare meglio ciò che resta da vivere. Titanici nel senso dato da Esiodo: costretti a τιταίνειν (sforzo) e τίσις (punizione). La protagonista inizialmente usa il suo corpo per eccitare, seguendo le convenzioni della sessualizzazione del corpo femminile, ma finisce poi per dover camuffare il proprio sesso, picchiandosi per modificare i propri connotati e utilizzando crudeli sistemi meccanici per nascondere la sua gravidanza.
Si ha l’impressione, come nei film di Tsukamoto, che il corpo di ogni personaggio possa essere dilaniato, strappato, mozzato, mozzicato e stracciato con il minimo sforzo e in qualsiasi momento. Titane, come già prima aveva fatto Raw, mette in scena il costante pericolo che minaccia l’integrità della pelle e degli organi attraverso tagli, invasioni chirurgiche e penetrazioni dolorose. Ma stavolta la transitorietà è totale: coinvolge ogni aspetto dell’esistenza umana (ovviamente anche il genere) e non è esclusivamente un fatto esteriore.
La scelta di Anne | Audrey Diwan
Ciò che sorprende di L’Événement è il modo in cui viene resa evidente – anche visivamente – l’ossificazione di un sistema che candidamente e senza vergogna costringe la giovane protagonista del film ad accettare il restringimento della propria indipendenza e la limitazione delle possibili scelte future che la maternità precoce inevitabilmente determina. Audrey Diwan segue le ramificazioni tossiche del potere patriarcale (trasversalmente alle classi sociali e ai sessi), ma allo stesso tempo cerca anche di aprire uno spazio, minuscolo e privato, per la solidarietà tra giovani donne che non possono esprimersela pubblicamente.
La propensione di Isabelle Pannetier per gli abiti blu pastello si rifà ai colori di rohmeriani, ma L’Événement evita sapientemente le trappole del period drama: non è interessato alla rievocazione storica, alla contestualizzazione nel passato, ma al racconto di una storia declinata interamente al presente nonostante il contesto degli anni Sessanta. Un inno alla lotta (in corso) per i diritti delle donne che non si fa mai manifesto. Una corsa contro il tempo brutale e selvaggia, ma non del tutto punitiva: a modo suo, il film crepita di un’energia che afferma la vita e che rende la coda del film ancora più potente e la sua tremolante empatia ancora più efficace.
Eternals | Chloé Zhao
Paradossalmente, proprio in un blockbuster come Eternals, accettando decisioni già prese dalla propria casa produttrice, il cinema di Chloé Zhao (ex studentessa di scienze politiche) trova quella componente militante di cui è sempre stato – più o meno consapevolmente – carente (spesso diminuendo la forza delle proprie rivendicazioni). Come Ece Temelkuran e altre intellettuali contemporanee, Zhao cerca quelle parole inconfutabili attorno alle quali potersi riunire, sulle quali fondare “una complessa negoziazione con l’epoca che viviamo”. In un mondo in cui la politica delle emozioni è monopolizzata dall’estrema destra, i progressisti devono avere qualcosa da dire, inserire il sentimento nel loro pensiero e nella loro proposta, cercare emozioni troppo vicine al cuore umano per essere alienate dalla polarizzazione politica. Questo fa un film come Eternals,fa dello “stare insieme” una proposta politica oltre che morale, senza farla apparire come una imposizione aziendale (come invece accadeva in maniera un po’ goffa nei precedenti film Marvel), ma sempre presentandola allo spettatore con la naturalezza della realtà, raccontando la diversità della razza umana secondo quasi tutti gli indicatori possibili (geografici, etnici, culturali, sessuali).
Petite Maman | Céline Sciamma
Céline Sciamma ha spiegato di aver cominciato a pensare a Petite Maman mentre scriveva Ritratto di una ragazza in fiamme, per poi riprendere in mano il progetto quando in Francia è finito il primo lockdown col desiderio ancora più forte di mettere in scena una storia di bambini, tra i soggetti più dimenticati (e colpiti) da questa pandemia. Nonostante ciò, sarebbe sbagliato derubricare il suo film ad un film sull’infanzia: pur essendo girato con delicata precisione «a altezza di bambino», anzi di bambine, nelle fantasie delle due magnifiche protagoniste (Joséphine Sanz e Gabrielle Sanz) si riversano spaventi, desideri, tristezze, interrogativi sull’età adulta e le relazioni familiari. Petite Maman è a suo modo un romanzo di formazione, la crescita della bambina che passa attraverso il lutto – e il «rimpicciolirsi della mamma» – il bosco come quello delle fiabe, archetipo di trasformazioni e scoperte, insieme alla proiezione fantastica per resistere alle sue ansie, immaginando la mamma non come altro da sé lontano ma come qualcuno «alla pari» con cui condividere un trauma.
Cow | Andrea Arnold
Andrea Arnold è una delle più importanti registe contemporanee. Anche quando gira un film intero su una mucca, riesce comunque a far innamorare lo spettatore della sua protagonista. Non siamo noi ad amarla, ma è lei ch, con tutti gli espedienti filmici che conosce, crea da zero un sentimento verso questo animale, ci porta ad avere quel sentimento tramite l’immedesimazione e l’antropomorfizzazione, le leggi base del racconto e quindi del cinema. E lo fa ben sapendo quale sia il destino inevitabile della bestia e quindi che quel sentimento che lei ha creato sta lì solo per essere frustrato nel finale. Tramite l’uso dei primi piani e di una musica eccezionale riesce a far apparire questo animale simile alle precedenti protagoniste del suo cinema: bella e forte, cool e dotata di una maniera propria di muoversi negli ambienti e possederli.
The world to come | Mona Fastvold
The World To Come trova il suo reale interesse nelle cose che non mette in scena, in ciò che avviene nelle numerose ellissi temporali che riavvicinano le due amanti dopo che queste sono state divise (per periodi brevi o lunghi che lo spettatore non vede). Lavorando sulla suggestione come elemento principale della narrazione, il film di Mona Fastvold conduce lo spettatore ad immaginare, proprio come scrive la protagonista nel suo diario, le numerose potenzialità inespresse di una relazione a cui mancherà sempre qualcosa. La giovane protagonista, colta e in grado di esplicitare i suoi sentimenti solo attraverso le parole e la scrittura, vive in una solitudine che lei stessa paragona ad una “libreria senza libri”.
Sarà la visita di nuovi vicini, come in alcune pièce teatrali di Ibsen, a dare il via ad una narrazione tratta da un racconto di Jim Shepard (uno dei più interessanti scrittori americani contemporanei) e sceneggiata dalla stessa Fastvold con Ron Hansen (autore del romanzo L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford). Una narrazione che prende il via da una “perdita” e che trova nella mancanza il suo senso ultimo. Mostrando didascalicamente la collocazione geografica del film con una mappa, il film trasla la storia nella vastità di terre indistinguibili, in cui la separazione tra individui è tale da non poter vincere la solitudine che li appesantisce.