Non è facile essere un attore americano di origine asiatiche nella Hollywood attuale. Nonostante alcuni passi in avanti siano stati fatti sul fronte del piccolo schermo (in serie TV come per esempio Fresh Off the Boat), gli interpreti asiatici sono sempre più spesso relegati a ruoli caricaturali e stereotipati. Questa marginalizzazione è ancora più evidente quando il ruolo di personaggi asiatici viene affidato ad interpreti americani inadeguati sia fisicamente che culturalmente al ruolo per cui sono stati scelti. Una tecnica, quella del cosiddetto “white-washing”, che ha avuto degli esempi emblematici anche nel più distante passato cinematografico (come non citare Mickey Rooney nei panni di I. Y. Yunioshi in Colazione da Tiffany), ma che ancora oggi continua a rappresentare uno standard a cui nessuno (o quasi) decide di ribellarsi. Basti pensare al Doctor Strange di prossima uscita, con la inglesissima Tilda Swinton nei panni del mistico tibetano Yao (the Ancient One), o ancora alla scelta tanto bistrattata di Scarlett Johansson nel ruolo del cyborg Motoko Kusanagi nella trasposizione cinematografica del cartone animato giapponese Ghost in the Shell.
Polemiche che sono state alimentate da alcune voci di corridoio su eventuali correzioni digitali volte a trasformare il viso di Scarlett attraverso lineamenti più “orientali”. Perché allora la marginalizzazione, se non addirittura la totale esclusione, di interpreti asiatici è ancora oggi accettata dalla industria cinematografica americana? Lo scorso anno è arrivato nelle sale Aloha, pellicola diretta da Cameron Crowe snobbata dal pubblico e derisa dalla critica, in cui Emma Stone vestiva i panni di una cinese/hawaiana dal nome Allison Ng. Nessun dibattito venne sollevato in seguito alla inusuale scelta di casting, nonostante il film si fosse rivelato un totale disastro. Ma gli asiatici non sono i soli a subire questo genere di esclusioni: film come Pan e Lone Ranger mettono in scena attori bianchi nei panni di personaggi nativi americani, o ancora pellicole come Gods of Egypt e Exodus: Gods and Kings continuano ancora oggi la lunga tradizione di caucasici nel ruolo di egiziani. Alcuni esponenti di spicco dell’ attuale industria cinematografica come Max Landis hanno “giustificato” il fenomeno del “white-washing” sostenendo che attualmente non vi sono attrici o attori asiatici in grado di poter trascinare da soli tutta la produzione di un film (come invece avviene per grandi nomi quali appunto Scarlett Johansson, Christian Bale, Benedict Cumberbatch ecc.).
Argomentazione sostenuta anche dal celebre Aaron Sorkin, sceneggiatore del recente Steve Jobs di Danny Boyle. Il problema quindi non sarebbe “razziale”, bensì economico, in quanto non esistono attualmente star asiatiche in grado di lasciare un segno al box office. Ma se le minoranze etniche sono un rischio dal punto di vista commerciale, come è spiegabile il successo di un franchise come quello di Fast and Furious, basato proprio sulla mescolanza di etnie e su protagonisti culturalmente differenti fra loro? Ironia della sorte, assistiamo invece esattamente al contrario, in quanto sempre più spesso progetti apparentemente trainati dalla presenza di “grandi nomi” falliscono miseramente. Esempi particolarmente recenti sono certamente Il Cacciatore e la Regina di Ghiaccio (con Chris Hemsworth, Charlize Theron, Emily Blunt e Jessica Chastain) o il pessimo Mortdecai con Johnny Depp. La speranza è che registi coraggiosi, come per esempio James Gunn, possano sdoganare la presenza di minoranze etniche anche in pellicole destinate al pubblico generalista, come può essere il prossimo Guardiani della Galassia Vol. II.