Il biopic secondo la concezione di Pablo Larraín, già sperimentata in Neruda e Jackie, è da sempre un’operazione di riduzione e miniaturizzazione: la versione entomologica di un genere cinematografico capace solo di analizzare una piccola porzione dell’esistenza dei suoi protagonisti trascurando tutto il resto (spesso proprio ciò che ha reso di interesse mondiale quelle biografie). Amplificando la propria impossibilità di comporre una narrazione esaustiva, il cinema di Larraín si consuma nello slancio verso qualcosa che non riesce mai pienamente ad afferrare. Ed è forse anche per questo che Spencer è un film trafelato, in cui Lady D corre inseguendo sé stessa, anche lei nel disperato tentativo di agguantarsi.
Adesso che la vita della principessa del Galles è stata oggetto di serie tv dalla grande capacità di ricostruzione e approfondimento (due stagioni di The Crown) e di innumerevoli documentari molto dettagliati, questa incapacità del cinema biografico di Larraín appare ancora più evidente, diventa il tema stesso della sua opera. Spencer prende fin da subito consapevolezza del proprio fallimento e si lascia così affascinare dal corpo che mette in scena: l’unica cosa che può essere acchiappata davvero, che è sempre lì vicina e appare per quella che è, che non ha bisogno di essere spiegata, analizzata, contestualizzata. La vicinanza in questo caso esprime la prepotenza del presente, del contingente che ingombra e impedisce la riflessione retrospettiva.
Spencer | l’impossibilità di approfondimento
La macchina da presa danza insieme a quel corpo in una coreografia che è un movimento continuo ed incessante di avvicinamento. Come la splendida colonna sonora di Jonny Greenwood, composta per una orchestra barocca ma eseguita da una jazz band che ne ha preso il posto, quella di Lady Diana in Spencer è una incarnazione fuori di sé, il risultato di una sostituzione, di una traslazione. Kristen Stewart non scompare nel ruolo, ma aggiunge una sfilza di altre facce a questa principessa chimerica, idra che mostra tutti i suoi molteplici volti simultaneamente, sullo stesso piano dimensionale, in un ritratto schiacciato e compresso come un dipinto cubista.
Il film si apre alla possibilità di altri punti di vista esclusivamente nelle scene in cui la principessa è in compagnia dei suoi figli: in quel caso la regia si concede il lusso di rinunciare alla camera singola e Kristen Stewart si fa improvvisamente meno sincopata, gioca con la sua voce e raggiunge un livello di intimità che denuncia per contrasto la finzione patinata di tutto ciò che esiste al di fuori di quelle sequenze.
I costumi di Durran e l’alienazione della moda
Larraín non ha alcun interesse nel rivelare la persona reale – qualunque cosa questo possa significare – ma è ipnotizzato da un facsimile che non può che limitarsi a suggerire la realtà, non potendola rappresentare. Anche i costumi di Jacqueline Durran (che come sempre contamina precisissime repliche dei vestiti d’epoca con accessori provenienti dalle ultime collezioni delle case di moda, in questo caso Chanel) prediligono l’iconografia all’accuratezza, la stilizzazione al rifacimento.
In questo “fashion-film” dell’orrore, neanche l’abbigliamento è un mezzo di autodeterminazione e indipendenza, ma un ulteriore fardello che appesantisce (la collana di perle che rimanda ad un futuro tragico come quello di Anna Bolena) o una corazza difettosa che lascia esposti i propri punti deboli (un abito verde che scopre la schiena). La moda è un elemento di alienazione che isola la protagonista dallo sguardo dello spettatore (che subito percepisce la distanza del divismo e della celebrità) e rispetto agli altri comprimari (emblematica la scena nella “dressing room” con Sally Hawkins).
Tenendo fede ad un vecchio insegnamento di Giuseppe Lanci, il direttore della fotografia che una volta gli disse che “non c’è nulla di meglio di un attore stanco”, Larraín ha chiesto a Kristen Stewart, al termine di ogni giornata di riprese, di danzare negli ambienti vuoti della residenza reale con le ultime forze che aveva in corpo. Anche quel montaggio, teoricamente liberatorio e catartico, entra nel film attraverso un’operazione di ricollocazione forzata che subito lo ingabbia, riassumendo perfettamente l’energia e la fatica di un movimento fisico e intellettuale che si esaurisce prima di svolgere il proprio compito.