Le immagini di Sylvester Stallone rimaste impresse nella nostra memoria sono sicuramente ai Golden Globes 2016 dove, tra gli applausi scroscianti del pubblico e una commozione palpabile, ha afferrato il premio trentanove anni dopo le due nomination ai Premi Oscar 1977 nelle categorie miglior attore e migliore sceneggiatura originale per Rocky (una combo toccata a maestri come Charlie Chaplin e Orson Welles), coronamento di una carriera spesso snobbata dalla settima arte. Dopo aver passato il testimone della saga al giovane regista Ryan Coogler e al protagonista Michael B. Jordan, Sylvester Stallone spegne oggi settanta candeline, felice di essere tornato agli onori della cronaca cinematografica ancora una volta con il personaggio che lo ha reso un’icona. Per comprendere la portata di quel momento è però necessario fare un salto indietro nel tempo, alle origini del mito, e spiegare la genesi di un eroe americano che ancora oggi, a 70 anni compiuti, è in grado di regalare grandi emozioni.
Nel 1975 si è trasferito da New York a Hollywood per cercare di entrare nel mondo del cinema. La stampa di settore lo ha già notato nel piccolo ruolo nell’indie Happy Days – La banda dei fiori di pesco ma dopo le insignificanti parti in Death Race 2000 e Capone tutto pareva essersi fermato. Il telefono non squillava da nove mesi. Nessuna offerta di lavoro: il mondo sembrava improvvisamente essersi scordato di lui. Per tirarsi su di morale, il giovane Sylvester di Hell’s Kitchen decide di comprare un biglietto per il match di boxe fra Chuck Wepner e il campione del mondo Muhammad Ali. Le aspettative erano molto basse: Wepner aveva 33 anni, lavorava in un negozio di liquori e non era altro che un autentico “signor nessuno”. Il suo avversario, invece, era il “re nero”, il più grande di tutti, pronto a mettere il suo avversario al tappeto al primo round. Lo spettacolo che andò in scena quella sera fu completamente diverso. Nonostante tre primi round massacranti, Wepner non voleva andare giù, continuava a rialzarsi e a lottare per la propria dignità e per il proprio onore, tanto da riuscire anche a mandare brevemente al tappeto il suo leggendario avversario. Il K.O. arrivò solo 19 secondi prima della fine del quindicesimo e ultimo round. La folla andò in delirio: la storia di quel pugile che osò sfidare fino al secondo finale il campione dei campioni (e il dramma della sconfitta) appassionò tutti, in maniera particolare il giovane e speranzoso Sylvester Stallone. Tornato a casa, il giovane attore, ispirato da quanto aveva appena visto, riuscì a scrivere in sole ottantaquattro ore la sceneggiatura di quello che sarebbe poi diventato il suo più grande successo cinematografico: Rocky. La vita di Stallone, come quella dei suoi personaggi su schermo, sembra essere scritta apposta per un racconto epico, mitologico: la storia di un ragazzo umile con problemi di salute (un Quasimodo, come lui stesso si è definito) che, dalla periferia più sporca di Manhattan, riesce a diventare una delle icone mondiali del cinema statunitense, incarnazione totale del “sogno americano”. Richiamando la concezione di Barthes, il mito è ciò che semplifica il presente e dimentica il passato. Per questo Rocky riuscì nello strabiliante tentativo di far dimenticare al popolo statunitense gli orrori della guerra in Vietnam e i sommovimenti popolari degli anni ’60 e ’70 restituendo la fiducia e la speranza in se stessi e nella propria nazione.
Per sua stessa ammissione, non è stato “Sylvester Stallone a creare Rocky, ma Rocky a creare Sylvester Stallone”, determinando un legame indissolubile fra maschera e attore, nel mito come nella vita. Ma questa inscindibile unione fra Sylvester Stallone e il suo alter ego più celebre è stata anche la zavorra che per anni non gli ha permesso di guadagnare altrettanto successo con film slegati dalla parabola del pugile di Philadelphia, se non con la creazione di una nuova maschera: quella del reduce di guerra Rambo. Nonostante ciò, il soldato protagonista di First Blood ancora una volta nasce da quella essenza naif del tutto americana, dalla stessa origine mitologica del suo predecessore, tanto che per alcuni “Rambo non è altro che un Rocky che ha perso la sua innocenza con la guerra in Vietnam“. Ma Sly, nonostante la fama e il successo raggiunti, ha dovuto affrontare anche una vita privata travagliata e dolorosa. Risposatosi tre volte, Stallone ebbe dalla prima moglie Sasha Czack (con la quale ha vissuto per dieci anni) due figli: Sage e Seargeo. Il primo scomparso lo scorso 2012 a causa di un attacco di cuore alla giovane età di 36 anni, il secondo invece affetto da autismo. Nonostante queste difficoltà, Sylvester Stallone ha continuato a combattere “un passo alla volta, un pugno alla volta, un round alla volta” contro tutti gli ostacoli che inevitabilmente ha trovato sul suo cammino in questi lunghi 70 anni. È per questo che oggi vogliamo ricordarlo con questo video della cerimonia degli Academy Awards 1977, quando Sly, ormai già entrato mito, incontra la leggenda Muhammad Ali: quella stessa leggenda che due anni prima gli aveva dato l’ispirazione per entrare per sempre nella storia del grande schermo.