Te L’Avevo Detto, la seconda opera dietro la macchina da presa di Ginevra Elkann, grottesca ed esistenzialista, è interessante nelle aspirazioni tragicomiche ma pecca di spessore emotivo.
Te l’avevo detto, per la regia di Ginevra Elkann, è un film che intreccia diverse storie sullo sfondo di un’insolita ondata di caldo. Inevitabilmente molto simile a Siccità di Paolo Virzì, questa volta vediamo sullo schermo Valeria Bruni Tedeschi, Alba Rohrwacher e Valeria Golino.
Ma anche Greta Scacchi, Danny Huston, Riccardo Scamarcio e Sofia Panizzi. Presentato in anteprima al Toronto Film Festival e alla Festa del Cinema di Roma, il secondo lungometraggio della regista uscirà nelle sale italiane il 1º febbraio 2024 distribuito da Fandango.
Il dramma contemporaneo di Ginevra Elkann, a tratti grottesco, diseguale e surrealista, sviluppa senza sosta le intrecciate vicissitudini private che fanno da protagoniste in una storia che, al di fuori del caldo asfissiante, manca di coesione.
Ogni personaggio, non appena appare sullo schermo, rivela infatti tanto velocemente quanto approssimativamente la propria specifica problematica di riferimento tra alcolismo, disturbo alimentare e dipendenza da sostanze, evocando un paradossale e opposto effetto di svuotamento di spessore dei temi sopracitati.
Te l’avevo detto di Ginevra Elkann: la trama
Mentre il caldo anomalo prende piede, il film racconta la storia di Pupa (Valeria Golino), un’ex pornodiva in declino che, tramite botulino e social media manager, cerca a tutti i costi di non venire dimenticata. Chi di certo non riesce a togliersela dalla testa è Gianna (Valeria Bruni Tedeschi), una donna nervosa e instabile che condivide con lei un conto rimasto in sospeso.
A cercare (senza successo) di prendersi cura della sua imprevedibilità ci pensa la figlia Mila (Sofia Panizzi), che però lotta con una feroce bulimia. Ad ascoltare i pensieri deliranti di Gianna c’è anche Bill (Danny Huston), un prete italo americano con gravi problemi di tossicodipendenza.
Sua sorella Frances (Greta Scacchi) lo ha da poco raggiunto dal Connecticut con l’urna cineraria della defunta madre. Infine, il quadro si chiude con Caterina (Alba Rohrwacher), una volubile alcolista a cui il marito (Riccardo Scamarcio) ha proibito di vedere il figlio Max.
Una narrazione (troppo) didascalica
Gli sviluppi narrativi di Te l’avevo detto prendono piede in una Città Eterna che si fa progressivamente da parte per lasciare spazio a confessioni, espiazioni e tentativi di redenzione. L’universo cinico e desolante del film, particolarmente interessante nelle sue aspirazioni tragicomiche, si riempie e si svuota forse però troppo velocemente. A mancare è soprattutto il guizzo d’autore sui protagonisti che appaiono come macchiette prive spessore.
Una narrazione cieca che mette in scena la bulimia solo come forma di abbuffamento, l’alcolismo tramite dei bicchieri pieni e la dipendenza come una siringa nel braccio, non è in grado, per definizione, di lasciare spazio a un approfondimento più intimista e meno descrittivo dei personaggi.
All’opera viene sicuramente in soccorso l’incredibile performance attoriale dell’intero cast corale. Anche se non tutti si discostano poi così tanto dai ruoli in cui siamo già abituati a vederli. Il collante di un film dove le storie, più che collegate da un invisibile fil rouge sembrano attaccate con la colla l’una dopo l’altra, è dato dall’avanzamento sempre più preoccupante del caldo.
Fa caldo, ma non così tanto
Mentre le continue voci diegetiche della radio parlano sempre di più del caldo anomalo, i personaggi si presentano sullo schermo con felpe foderate, maglie a maniche lunghe e calze coprenti sotto le gonne. In un’opera in cui l’incomunicabilità fa da padrona, sarebbe stato interessante se questa paradossale cecità dei personaggi fosse dipesa dal fatto che gli stessi non si accorgono dell’incolumità naturale che incombe. Un po’ come in Don’t Look Up (2021).
La verità, molto più banalmente, è che rispetto a Siccità – con cui è inevitabile fare i paragoni – Te l’avevo detto pecca di quel viscerale senso di realismo. In questo caso la denuncia del riscaldamento globale viene infatti affidata unicamente una fotografia gialla (giallissima) di Vladan Radovic che rende le scene polverose.
Affinché l’asfissia rovente e desolante subentri in maniera concreta nell’aspetto fisico e psicologico dei protagonisti, bisogna aspettare fino alla fine dell’opera. Precisamente, quando alla ripetizione ossessiva del “È caldo” si opta finalmente per dei corpi sudati, stanchi e confusi. Ma ormai è troppo tardi.