Dopo otto anni di assenza dal grande schermo, il maestro taiwanese Hou Hsiao-hsien torna in grande forma con il suo nuovo The Assassin, vincitore tra applausi scroscianti del premio per la miglior regia alla 68ª edizione del Festival di Cannes. Ispirato in parte ai racconti di Pei Xing, il film narra le vicende di una giovane assassina che, dopo aver mostrato fin troppa misericordia nel risparmiare una delle sue vittime designate, viene mandata dalla sua “padrona” in missione per uccidere Tian Ji’an, il suo stesso cugino. La protagonista del racconto è una eroina ben diversa da quella generalmente rappresentata secondo i canoni occidentali: non seduce, bensì si ritrova a confrontarsi con chi in passato aveva cercato di sedurla.
Ma il nuovo film del regista taiwanese non si limita a parlare dei rapporti personali tra i personaggi, bensì tratteggia le relazioni che intercorrono fra il potere centrale e quello periferico, fra il governo di Pechino e la corte di Weibo, assumendo così una carica politica e non solo melodrammatica. Per stessa ammissione del regista questa sua nuova opera nasce come omaggio alle pellicole di samurai che amava vedere da bambino ma, a differenza degli wuxia classici, The Assassin non sfida la fisica con voli acrobatici e calci che fendono il vuoto, bensì è ancorato al suolo dalla gravità che appesantisce tutti i suoi protagonisti.
Nie Yinniang: un destino nel nome
La nuxia del film, cavalleresca protagonista, ha il destino segnato nel nome: Nie Yinniang. Nie (聶) infatti significa “tre orecchie” (耳), mentre Yin (隐) è la traduzione del verbo “nascondersi”. Niang, infine, vuol dire “ragazza”. Il personaggio interpretato da Shu Qui si nasconde tra gli alberi, entrando in simbiosi con il paesaggio in cui è immersa, e sfrutta proprio le sue “tre orecchie” per vedere i propri obiettivi anche con gli occhi chiusi, sfruttando i suoni in cui è immersa. Proprio come i pipistrelli, Nie sembra poter cogliere frequenze impercettibili per gli altri esseri umani, così da essere guidata nel suo percorso attraverso le armonie del cosmo. Torna come elemento fondamentale nella iconografia orientale lo strumento musicale dello guqin, antica cetra a corda risalente a più di duemila anni fa.
I più attenti appassionati della cultura orientale avranno imparato a conoscere questo oggetto attraverso le tante apparizioni nella passata filmografia cinese, da A chinese ghost story di Ching Siu-Tung a Touch of Zen di King Hu, scoprendo la carica quasi magica che la musica di queste corde può rivelare. Questo testimonia non solo i significati esoterici e mistici che si celano dietro alla magnetica pellicola di Hou Hsiao-hsien, bensì la fondamentale importanza che la natura e gli elementi del mondo rivestono nelle vicende della giovane assassina. Il suono creato dalle vibrazioni dello guqin, infatti, esprime la sua forza più pura solo se riprodotto fra il verde della natura incontaminata, lasciando che la musica possa espandersi e riempire lo spazio che circonda il musicista.
Un capolavoro in cui perdersi
Pur trattandosi di una esperienza abbastanza dissimile dai suoi precedenti lavori (la stessa produzione della pellicola, a cavallo tra la Cina e Taiwan, lo dimostra) Hou Hsiao-Hsien non nasconde i tratti caratteristici del suo cinema, come il realismo delle situazioni e la preferenza di sequenze lunghe a telecamera fissa. Non ci troviamo di fronte alla lentezza esasperata del suo Flowers of Shanghai (centotrenta minuti di film e solo trenta inquadrature), ma il ritmo anche in questo caso non é mai frenetico, come vorrebbe la tradizione degli wuxia, bensì dilatato e cadenzato. Il regista, rimanendo fedele alla sua tradizione “neorealista”, decide di affiancare agli attori principali dei veri contadini alla loro prima esperienza cinematografica.
La stessa protagonista, pur interpretando una addestrata assassina, non ha una grande esperienza nel cinema di combattimento, e per questo le scene di azione potrebbero sembrare meno spettacolari di quanto dovrebbero. In verità Hou Hsiao-Hsien decide di soffermarsi maggiormente sulle motivazioni che si nascondono dietro alle faide e agli scontri, piuttosto che puntare la propria attenzione sulle sequenze più concitate. Interamente girato nelle terre della Mongolia Interna, The Assassin gode di paesaggi mozzafiato simili a quelli della pittura classica cinese, caratterizzati da colori accesi e in grado di sembrare luoghi immaginari presi in prestito da qualche fiaba di tanti anni fa.
Ma se la prima visione può servire allo spettatore per farsi ipnotizzare dalla bellezza e magnificenza delle immagini su schermo, The Assassin è un capolavoro sfaccettato che necessita di analisi successive affinché si possa comprendere appieno il mosaico di storie, memorie e suggestioni composto con cura e maestria dal regista taiwanese. Proprio come la natura assorbe i personaggi che la popolano e la attraversano, così il film di Hou Hsiao-hsien avvolge lo spettatore, lasciando che si perda nella poesia senza tempo e senza spazio di una mitologia antica ma ancora profondamente contemporanea. Da non perdere.