The Dead Don’t Hurt, la recensione del western di Viggo Mortensen

Locandina The Dead Don't Hurt (fonte: Movies Inspired)
Locandina The Dead Don't Hurt (fonte: Movies Inspired)

Quattro anni dopo Falling, Viggo Mortensen torna da entrambi i lati della macchina da presa con The Dead Don’t Hurt, un western romantico in cui mette in discussione (tra le altre cose) la cultura della violenza negli Stati Uniti.

The Dead Don’t Hurt, la recensione del western di Viggo Mortensen
3.3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il secondo film da regista di Mortensen segue le vicende di Vivienne Le Coudy (Vicky Krieps), una donna franco-canadese che si guadagna da vivere vendendo fiori a San Francisco. Quando incontra il falegname danese Holger Olsen (lo stesso regista), i due si innamorano ma lei si rifiuta di sposarlo, rimanendo fedele al suo spirito indomito e indipendente.

Decidono lo stesso di andare a vivere insieme a Elk Flats, nel Nevada, dove la vita scorre tranquilla, tra lavoro e altre occupazioni quotidiane, almeno fino a quando Holger decide di partire per combattere nella Guerra Civile. È così che la coppia è costretta a separarsi e Vivienne si trova a dover provvedere a se stessa in un clima ostile a causa dei crescenti conflitti.

Viggo Mortensen in The Dead don't Hurt
Viggo Mortensen in The Dead don’t Hurt

Clint Eastwood insegna

Pur condividendo il luogo della produzione – Durango, Messico – con Il buono, il brutto e il cattivo, quello di Mortensen è un western solo apparentemente classico, che presto si allontana dal suo protagonista maschile – che va via per la guerra senza che il film lo segua – e si concentra su chi rimane, ovvero sua moglie, raccontando la sua difficoltà di adattarsi in una società che non è pensata e costruita per lei.

E se i cowboy che Clint Eastwood (che aleggiava anche sulla figura paterna del precedente film) ha interpretato nei suoi primi western, come la trilogia de L’uomo senza nome, parlavano con poche parole ben scelte, Holger è invece un tipo goffo, che dice quasi sempre cose un po’ stupide e non troppo profonde, evidentemente a disagio con le parole e con il loro utilizzo nelle interazioni sociali. Ma non si tratta davvero delle parole in sé, sembra suggerire Mortensen. Si tratta dello sforzo di comunicare (che è tutto sommato un insegnamento molto eastwoodiano).

The Dead don’t Hurt: cowboy e cavalieri

The Dead Don’t Hurt, fin dalla prima inquadratura, traccia un collegamento filologico tra il genere western e il racconto cavalleresco, introducendo una narrazione che non smette mai di destreggiarsi tra passato, presente e futuro, collegando flashback e flashforward, senza mai confondere lo spettatore, ma richiedendo ugualmente la sua costante attenzione.

Nonostante la nobile volontà di dar conto della prospettiva femminile in un genere che non l’ha mai prevista, il film non sfugge ad un narcisismo sotterraneo, che spinge l’attore 65enne a ritagliarsi per sé un ruolo affascinante e atipico: quello di un cowboy come nessun altro, letterato, francofilo, innamorato di una donna emancipata, anima candida che spicca sul marciume che regna sull’Ovest corrotto degli Stati Uniti e che deve combattere contro cattivi monodimensionali, spregevoli senza possibilità di altra caratterizzazione.

By Davide Sette

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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