The Little Drummer Girl, la recensione dei primi due episodi

The Little Drummer Girl

Se c’è una cosa che accomuna tutti i film di Park Chan-wook è la progressiva rivelazione della violenza, per cui si passa da un pudore estremo ad una sfacciataggine che segue gli sviluppi della narrazione. Quella di Park è una violenza che non si palesa subito, ma che viene prima suggerita ed anticipata, inferta psicologicamente e solo dopo materializzata sui corpi dei personaggi. Così anche The Little Drummer Girl, prima miniserie televisiva del regista sudcoreano, tratta dall’omonimo romanzo di John le Carré (La Tamburina), narra di una attrice di teatro dalle idee politiche radicali che diverrà, proprio attraverso la manipolazione psicologica e l’indottrinamento, il perno di un complesso piano volto a scovare e ad annientare una famiglia di pericolosi terroristi palestinesi. Non ci è dato sapere, dopo aver visto solo le prime due puntate, se anche in questo suo progetto televisivo (nato sotto il segno dei produttori esecutivi della serie The Night Manager, anch’essa ispirata da una storia di le Carré) l’andamento lento precluda effettivamente ad una esplosione di violenza che sarà tanto più insopportabile quanto più “accumulata” dai personaggi e dagli spettatori.

Eppure tutto in The Little Drummer Girl sembra farci credere che ci sia qualcosa di irrazionale ed imprevedibile sotto una narrazione così gelida e chirurgicamente costruita, ordinata dal rigore formale di un cineasta che si serve di inquadrature pulitissime per creare un mondo attraverso la forma e solo successivamente attraverso il contenuto della trama. Park Chan-wook è stato sempre un cineasta orientale “atipico”, figlio non solo del cinema del suo continente ma anche profondo ammiratore di tutto il cinema americano ed europeo. La sua messa in scena sembra richiamare diverso cinema inglese, così come molte delle sue inquadrature sono innanzitutto riadattamenti degli usuali piani americani. Non deve quindi stupire la decisione di BBC ed AMC di chiamare un regista del genere per dirigere l’adattamento di una spy-story che rende omaggio al cinema di spionaggio più classico.

The Little Drummer Girl: personaggi indecifrabili

Al termine dei primi due episodi di The Little Drummer Girl si avrà la sensazione di non aver visto davvero tutto quello che c’era da vedere, che qualcosa di fondamentale ci sia stato deliberatamente nascosto o mostrato in maniera distorta. Proprio come in uno dei film di Park Chan-wook sembra che non si possa mai dire di conoscere realmente i personaggi, i quali ad ogni passaggio della narrazione rivelano un dettaglio che prima non conoscevamo e che invece si rivela essere indispensabile per comprenderne le azioni. La scelta di casting è quindi impeccabile.

Se Michael Shannon, maestro della paranoia e dell’ambiguità, è perfetto nei panni di un agente del Mossad, così Alexander Skarsgård torna a vestire i panni di un personaggio solo apparentemente in controllo della situazione ma la cui rigidità suggerisce qualche turbamento invisibile ed imperscrutabile (proprio come i personaggi da lui interpretati in Hold the Dark e Mute). Ma a calamitare l’attenzione del pubblico è l’elettrica Florence Pugh, giovanissima attrice britannica reduce dalla convincente prova cinematografica di Lady Macbeth,  di cui fa tesoro per rendere su schermo la complessità di una figura femminile sfuggente ed impenetrabile, sicura di sé  e delle sue idee ma che allo stesso tempo si ritrova invischiata in una vicenda che forse non è in grado di gestire. 

The Little Drummer Girl: l’estetica di Park Chan-wook

Anche nella sua prima incursione televisiva Park Chan-wook non rinuncia all’estetica che lo ha reso riconoscibile sul grande schermo, con la sua eccentrica ossessione verso specifici elementi architettonici (le scale), verso i vestiti e ciò che li compone (i bottoni) e verso le improvvise scariche di eccitazione (la velocità delle macchine). Chi ricorda Lady Vendetta (in cui il regista giocava tutto su tre colori: il bianco della neve, il rosso del sangue e il nero degli indumenti) riconoscerà anche l’iconico uso dei colori. Non a caso una delle scene migliori di questi primi due episodi vede Florence Pugh vestita di giallo (colore spesso associato al mistero ed alla mistificazione) sul divano di una villa greca. È una scena che ci dice tutto il necessario anche solo attraverso le immagini, la scenografia e la scelta dei vestiti. 

By Davide Sette

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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