«Le cinéma est un cimetière vivant», diceva Alain Resnais. E allora The Shrouds di David Cronenberg è davvero un film sulla morte, quindi un film sul cinema.
Il nuovo film del maestro canadese esplora direttamente la relazione tra immagine e aldilà utilizzando il cadavere di una donna (Diane Kruger) nella sua tomba high-tech programmata per restituire, sul monitor incastonato nella lapide, il video in tempo reale della sua decomposizione. È l’invenzione e il business di suo marito (Vincent Cassel), ideatore di cimiteri futuribili che offrono la possibilità di lenire il dolore del lutto attraverso l’esperienza “dal vivo” di chi è sotto terra (oltre a un comodo ristorante con vista sui loculi).
L’amore, per Cronenberg, è innanzitutto amore per un corpo. Ed è per questo che, post-mortem, l’unico modo per continuare ad amare è accettare la nuova fase in cui si trova quel corpo che si è adorato in vita, accompagnandone la transizione verso qualcosa di diverso.
La telecamera, in questo caso, non è un occhio, ma un sudario. Un bozzolo che registra ciò che copre, che svela anziché nascondere. Cronenberg ipotizza un cinema epidermico, come un velo di Veronica su cui rimane impressa l’immagine umana.
L’autore stavolta adatta le sue classiche ossessioni – sessuali, biologiche, istologiche – al contesto digitale, le traspone sul piano del virtuale per riflettere sui corpi quando questi non esistono più come sistemi fatti di carne e di ossa, ma si smaterializzano diventando ammassi di pixel, rendering tridimensionali di ciò che esiste nella realtà, arrivando alla conclusione che anche quando fittizi, poligonali, i corpi presentano le stesse vulnerabilità di quelli veri, le stesse possibilità di essere penetrati, mutilati, cambiati dall’interno.
Anzi, sono forse ancora più esposti alla violenza esterna, talmente interconnessi da poter essere manipolati da mani che si allungano da lontanissimo, che agiscono addirittura da remoto. Pericolo che crea uno stato di paranoia per cui ci si sente minacciati fisicamente da ipotetiche e implacabili forze ostili, capaci di violare il proprio spazio di intimità fisica (i russi e i cinesi tornano spesso come spauracchio ironico). Questo marasma di idee confuse, di paranoia generalizzata, non è solo additato come una malattia del tempo, ma sfruttato per inventare trasgressioni e fanatismi diversi da quelli religiosi.
Questa dimensione mentale e intellettuale determina anche un cambiamento stilistico: The Shrouds non è un body horror come il precedente Crimes of the Future, ma riprende invece l’impostazione dialogica e teatrale di opere macabramente “fashion” – in questo caso la tecnologia che avvolge i cadaveri è un suadente vestito dallo speciale tessuto – come Cosmopolis e Maps to the stars (il produttore è lo stesso, Saïd Ben Saïd, in coppia con Anthony Vaccarello di Yves Saint Laurant, che ovviamente ne ha curato i costumi) dove la parola è il principale strumento per affermare le proprie teorie, per riflettere su quello che succede: specialmente stavolta che gli avvenimenti non accadono effettivamente nel mondo dove agiscono i personaggi, ma in quello immateriale.
Cronenberg aggiorna le morbosità di Crash all’era in cui le macchine – ormai elettriche, silenziose, private delle loro componenti meccaniche, rese sicure da tantissimi sistemi di controllo automatizzati – non hanno più alcun fascino perverso, e individua nelle cospirazioni, nelle teorie del complotto, il nuovo stimolo per una sessualità che si nutre di finzione, di immaginazione, di pericoli ipotizzati, di deliranti manie di protagonismo.
Anche le informazioni (e quindi la disinformazione) agiscono sul nostro organismo, lo attivano in maniera imprevedibile, lo inducono a modificazioni, amputazioni, sanguinamenti. Lo eccitano, lo agitano, lo fanno vibrare nell’illusione di aver raggiunto un più profondo ed esclusivo stato di consapevolezza di se stessi e del mondo fuori. Ci convincono di cose sulla base delle quali poi agiamo e interveniamo su di noi, anche in maniera drastica.
Vincent Cassel ha a che fare con tre proiezioni differenti della moglie ormai defunta, tutte ugualmente inafferrabili e inesistenti sul piano materiale (dove invece rimangono solo le ossa): quella digitale, ovvero un’assistente creata con l’intelligenza artificiale, quella onirica e quella legata alle reminiscenze che evoca ogni volta la visione della sua sorella gemella.
L’artificialità assoluta, per il regista canadese, è un’utopia, dal momento che ogni I.A., ogni avatar, ogni tecnologia, deve necessariamente avere un corrispettivo umano che la comanda, che la setta, che la nutre di informazioni: mai “neutrali”, ma sempre condizionate dai bias culturali di chi decide quali sono i dati utili da fornire al programma.
Lo sdoppiamento nella realtà e nel virtuale raddoppia le proprie fragilità, le proprie ansie, le proprie ossessioni, allargando indefinitivamente il loro campo di influenza e di azione, con conseguenze spesso disastrose. Ciò che prima rimaneva confinato nei limiti della propria persona, adesso può infettare la società, intesa come corpo unico che tiene in sé, per accumulazione, tutte le patologie dei singoli. Ed è lo schermo, il monitor, a fare da pelle a questa nuova entità collettiva radicalmente decentrata e in corso di soggettivizzazione.