L’Ultimo Lupo, la recensione del film ispirato al bestseller cinese

Jean- Jacques Annaud, regista di Sette Anni in Tibet e Il Nome della Rosa, torna al cinema il 26 Marzo con L’Ultimo Lupo, un film ispirato al celebre romanzo Il Totem del Lupo del 2004, che, come recita la frase a schermo nero alla fine della proiezione, è stato il secondo libro più venduto in Cina dopo il Libretto Rosso di Mao Tse Tung.

TRAMA

Ambientato nella Mongolia del 1967 all’inizio della rivoluzione culturale, L’Ultimo Lupo racconta la storia di   Chen Zen, un giovane studente di Pechino che viene mandato nelle zone interne del paese per insegnare la lingua ad una tribù di pastori nomadi. Entrando in contatto con una cultura molto diversa dalla sua, il ragazzo impara molto ed instaura un legame profondo e conflittuale con un cucciolo di lupo, un animale considerato in modo particolare nella steppa. Nonostante le opinioni contrastanti, Chen decide di allevare questo piccolo amico, ma quando il governo decide di sterminare la razza per motivi di sicurezza, il ragazzo fa il possibile per salvare la situazione.

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RECENSIONE

Come Belle e Sebastian per la Francia, L’Ultimo Lupo per la Cina non è soltanto una storia, ma sembra rappresentare una sorta di manifesto culturale che ricorda un particolare periodo storico di un paese come la Mongolia, così pura e rurale, spesso minacciata dall’esterno. Il paesaggio è il vero protagonista di questo nuovo lavoro di Annaud, che si fa sedurre dall’estetica e dalla bellezza di campi verdi e rocce innevate, senza però trascurare i personaggi, presentati in modo dettagliato e attento. Shaofeng Feng interpreta il protagonista Chen Zhen, un ragazzo gentile e premuroso che non ha paura dei suoi desideri, anche quando riceve una serie di intimidazioni esplicite. Il legame che egli instaura con il tenero cucciolo di lupo, è il cuore del film, che si conferma un dramma sentimentale con piccole intrusioni di umorismo. Il regista utilizza la storia di amicizia e di iniziazione anche per denunciare i problemi ambientali e gestionali della Cina di quel periodo, anche se il ritmo del film risente di dialoghi e situazioni ripetitive.

A differenza dei suoi film precedenti, Annaud sembra aver perso un po’ della sua capacità di raccontare storie epiche e coinvolgenti con una poeticità insolita, e manca quell’atmosfera emozionante che scuote lo spettatore. La storia è interessante e piena di spunti, ma viene inghiottita da una regia debole, che comprende stratagemmi stilistici posticci. I continui primi piani degli occhi del lupo, o le forme personalizzate delle nuvole nel cielo, diminuiscono la credibilità e l’aspetto realistico del film. Va bene l’idea di un cinema che fa sognare, ma in questa circostanza questa chiave di lettura si avverte come forzata e fuori luogo. La fotografia evocativa di Jean-Marie Dreujou rende tuttavia piacevole il film, che regala immagini suggestive e coinvolgenti. Un film da vedere per interesse culturale e paesaggistico, e per la storia tenera e delicata, che sarebbe stata più convincente se non si fosse persa tra mille inquadrature inutilmente contemplative.

TRAILER