Venezia 76, J’Accuse: Roman Polanski “riapre” il caso Dreyfus

“Tutti i fatti narrati sono realmente accaduti”. È una didascalia classica, quasi banale, che si trova all’inizio di ogni film tratto da fatti di cronaca o basato su vicende realmente avvenute. Eppure nel nuovo J’Accuse di Roman Polanski, incentrato sulla vicenda di Alfred Dreyfus, capitano francese condannato per alto tradimento sulla base di prove false, assume un valore enorme che altrove non avrebbe. Per Polanski, infatti, il cinema stesso è lo strumento principale per affermare (se non proprio per scovare) la verità delle cose. L’indagine compiuta dal Georges Picquart interpretato da Jean Dujardin, elegantissimo in un ufficio popolato da guitti, non è un’indagine compiuta sul campo (sono altri a fare il lavoro sporco per Picquart) bensì da spettatore.

Sarà lo stesso Picquart a ribadirlo nel corso del film (“Sono qui per osservare, non per intervenire”) e poi sarà Polanski, attraverso un suo esplicativo cameo come spettatore di un concerto da camera, a confermarlo. Il colonnello francese conduce la sua indagine utilizzando quasi esclusivamente lo sguardo, leggendo lettere, confrontando calligrafie e osservando attentamente le fotografie che gli vengono portate. E chi cercherà di nascondere la verità, cercherà di farlo negando alla vista (dello stesso Picquart o della giuria giudicante) documenti che proverebbero (o confuterebbero definitivamente) la colpevolezza di Dreyfus. Il film non uscirà quasi mai dagli interni (del Ministero, dei Servizi Segreti, delle aule di tribunali) perché tutte le immagini giungeranno direttamente a Picquart, il quale userà il suo sguardo come unico elemento determinante per prendere delle decisioni (anche i colleghi di cui fidarsi o meno sembrano essere scelti sulla base di un criterio estetico).

L’unica giuria che Polanski vuole convincere è quella composta dai suoi spettatori, non quella dei tribunali francesi all’interno dei quali si svolge il processo Dreyfus. Ed è quindi agli spettatori che Polanski fornisce costantemente delle immagini utili a capire cosa è successo realmente. Immagini che lavorano su più livelli simultaneamente: quello della narrazione effettiva (la vicenda che vede coinvolto Picquart), quello della narrazione che Polanski sceglie di comporre per gli spettatori (i flashback, che compaiono e scompaiono attraverso dissolvenze) e quello delle immagini che i personaggi proiettano nella loro mente (e quindi sullo schermo) anche solo leggendo delle lettere.

Ogni cosa nel cinema di Polanski nasconde qualcosa da guardare, può essere giustificata tramite un’immagine e resa concreta tramite la raffigurazione visiva della stessa (anche sul piano processuale, c’è una grande differenza tra una testimonianza supportata dalle immagini e una testimonianza sprovvista di un opportuno apparato fotografico). Solo il cinema può svelare ciò che altri vorrebbero nascondere alla nostra vista.