A venticinque anni di distanza dall’ultima puntata, Lars Von Trier torna sul luogo del delitto per dirigere la terza e ultima stagione di The Kingdom, la serie tv danese che, nell’ormai lontano 1994, scrisse e diresse con lo scopo di sorprendere il pubblico «da salotto» con una storia incomprensibile e un tono strafottente tra il demenziale e l’horror. È facile riconoscere oggi come quel progetto apparentemente sconclusionato abbia in realtà anticipato mode, tendenze e serie tv che sarebbero arrivate dopo, da The Office a In the Loop (e i loro equivalenti statunitensi, tra cui Veep), grazie ai suoi filmati dalla fotografia sciatta, ai movimenti di camera da doc casalingo e alla voglia di ridere catarticamente dei comportamenti oltraggiosamente sbagliati sul luogo di lavoro.
In questo caso, la serie è ambientata in un ospedale praticamente privo di pazienti ma pieno di medici e infermieri che di fatto non lavorano mai, stravolgendo i codici dei medical drama in tv e, soprattutto, mettendo a dura prova il telespettatore con intrighi sempre più ingarbugliati e repentini cambi di registri narrativi, impiantati dentro lo schema rigido e stantio della soap opera.
E se è vero che The Kingdom oggi potrebbe apparire un po’ vecchiotto, questa terza stagione non fa niente per evitare l’effetto dejavu o per rinnovare, a livello estetico e narrativo, quel tipo di racconto (come invece fatto da Lynch per la terza stagione di Twin Peaks). Anzi, fa esattamente il contrario. Tutto è in stile anni ’90, tutto è uguale a prima: compreso le establishing shot dell’ospedale dall’esterno e il filtro color seppia. Von Trier ambisce a non far percepire alcuno stacco temporale allo spettatore, a dare l’impressione che la sua serie sia stata girata tutta insieme: il mito della continuità totale anche se passano gli anni, cambiano i registi e si avvicendano gli sceneggiatori.
The Kingdom | dagli anni Novanta a oggi
In questi venticinque anni, Il Regno ha continuato ad esistere e ad “operare”, cercando di far dimenticare la cattiva fama che aveva ottenuto a causa di uno sciroccato regista che tempo fa decise di creare una serie tv attorno alla struttura ospedaliera. È tramite la finzione del regista – le precedenti stagioni della serie, che la protagonista vede in tv giudicandole “una boiata” – che prende le mosse questo ultimo capitolo metatestuale, rendendo la rappresentazione più vera del vero.
Il rischio, ovviamente, è quello di ritrovarsi a prendersi gioco di un mondo televisivo che in realtà non esiste più. La medesima ironia sui rapporti tra svedesi e danesi dà forma a trovate nuove, lo stesso approccio al fantastico si traduce in nuove visioni di questo ospedale infestato da tutto, ma ciò che negli anni ’90 appariva sfrontato ed eccitante (cioè l’approccio sfacciatamente disinteressato allo stile, gustosamente amatoriale, e alla trama, assolutamente pretestuosa) oggi, in un mondo delle serie tv totalmente diverso, sembra sparare nel vuoto.
Una poetica dell’autoreferenzialità
Lo stesso Von Trier, che da tempo ha elevato l’autoreferenzialità a cifra poetica, è uno dei pochi cineasti in grado di rendere sincera la celebrazione di sé, facendola apparire come qualcosa di autentico. Come sempre, però, il suo cinema trova i momenti più intensi quando ammette la sconfitta, cioè quando il regista rinuncia ad essere il demiurgo della sua opera-gioco, le cui regole sono già scritte per essere vinte e padroneggiate, quando emerge il gusto situazionista per cui ogni scena si esaurisce immediatamente: incerto ed inconcludente, ma anche finito e de-finito (mai come in questo caso, visto che la terza stagione di The Kingdom nasce proprio dalla volontà di dare una conclusione alla trilogia).
Il luogo della cura per eccellenza diventa il luogo di un orrore inesplicabile, il luogo da cui si proietta il desiderio della società di curarsi, di non terminare, esattamente come non terminano le immagini di questa d(enm)ark-comedy infinita, che si proietta sempre in avanti e che può essere ripresa in qualsiasi momento, anche a distanza di diversi decenni, almeno fino a quando il primario non decide di staccare la spina.