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Venezia 81: Babygirl, conferenza stampa | Nicole Kidman: “Un film sul desiderio femminile”

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Nicole Kidman presenta Babygirl a Venezia 81 – NewsCinema.it

A Venezia 81 Nicole Kidman è la protagonista del thriller in Concorso Babygirl, ha presentato il film in conferenza stampa assieme alla regista olandese Halina Reijn e il resto del cast, composto da Harris Dickinson, Antonio Banderas e Sophie Wilde. Ecco tutti i dettagli

La protagonista indiscussa del programma di oggi, venerdì 30 agosto, alla 81ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è senza dubbio Nicole Kidman. La star australiana torna al Lido in Concorso con il provocatorio Babygirl, thriller diretto dalla regista olandese Halina Reijn.

Questa volta, l’attrice premio Oscar interpreta una potente amministratrice delegata che inizia una torbida relazione con Samuel (Harris Dickinson, Triangle of Sadness), uno stagista molto più giovane di lei.

Presenti alla conferenza stampa anche gli altri membri del cast, nonché l’acclamato Antonio Banderas e l’emergente Sophie Wilde (Talk to me). Tra gli spinosi temi affrontati, spuntano anche il desiderio, la raffigurazione del corpo femminile e la lotta tra il bene e il male. Di seguito, tutti i dettagli emersi durante l’incontro con la stampa.

Nicole Kidman e Halina Reijn sul desiderio femminile tra corpi, potere e consenso

Babygirl è un film che pone l’erotismo al centro. Qual è il linguaggio più corretto per affrontare un tema del genere? Nicole Kidman sorride con sicurezza e prende subito la parola: “Il film parla di sesso, desiderio, pensieri intrusivi, verità, potere e consenso. Il linguaggio per affrontare il sesso è sempre complicato. In questo caso, abbiamo la storia di una donna, raccontata da una regista donna. Ed è questo che ha reso questo film unico, per me. Il fatto che ci fosse una donna con in mano questo materiale”.

Halina Reijn non può che essere d’accordo: “È stato un onore lavorare a questo progetto. Sono orgogliosa di aver diretto un film sul desiderio femminile. Sono felice di parlarne oggi e di poterlo fare a Venezia. Parlare del rapporto col il proprio corpo è importante. Parlare dell’orgasmo femminile è altrettanto importante“.

Il film esplora i limiti della femminilità

Anche l’attrice più giovane del tavolo è d’accordo. Secondo Sophie Wilde, infatti, “Il film esplora i limiti della femminilità“.

Ed è proprio la giovane età di Wilde unita all’incredibile talento che la contraddistingue, ad aver spinto la regista ad affidarle le battute più significative del film. “Ho scelto di dare al personaggio di Sophie le battute più autentiche del film, sperando che ispirino i giovani“.

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Babygirl a Venezia 81 (Foto: ufficio stampa) – NewsCinema.it

Babygirl richiama l’erotismo dei thriller anni Novanta

Il film in Concorso di Halina Reijn, inevitabilmente, ci riporta ai classici thriller erotici degli anni Ottanta e Novanta. Titoli che, in un certo senso, spesso e volentieri “punivano” le donne per la loro libertà, cosa che in Babygirl ovviamente non avviene.

Uomini o donne, siamo tutti essere umani, con diversi pensieri e bestie che vivono dentro di noi“, dice non a caso la regista. “Io non credo in buono o cattivo, credo in entrambi. Sopprimere l’uno o l’altro è pericoloso, è per questo che non voglio punire nessuno dei miei personaggi“.

Halina era sempre pronta ad aiutarci, a sfidarci

Lotta tra bene e male che si riflette anche nella parte maschile del film. Ne ha parlato anche lo stesso Harris Dickinson a proposito del suo personaggio: “Samuel rappresenta la classica confusione che un giovane uomo può vivere. Confusione nel corpo, nei modi, in tutto. Halina era sempre pronta ad aiutarci, a sfidarci. Penso che questo abbia aperto un nuovo mondo, sia per il film che per me. È stato un onore lavorare con queste leggende“, dice il giovane attore indicando Nicole Kidman e Antonio Banderas. “E con Sophie“, aggiunge poi con ironia.

Antonio Banderas: “Le scene di sesso? È importante lavorare in uno spazio sincero e sicuro”

Antonio Banderas, dal canto suo, ha raccontato che cosa l’ha convinto a partecipare al film: “Quando ho letto la sceneggiatura, ho capito si trattava di un’opera coraggiosa. Il film è sulla natura, sull’istinto. E non c’è niente di democratico sulla natura e sull’istinto. Non abbiamo chiesto di nascere, semplicemente siamo attaccati a quello che siamo. La regista ci ha dato tanta libertà e sono onorato di aver partecipato a questo progetto così libero“.

Un film libero, disturbante, contorto e ricco di sequenze esplicite. Sempre Banderas ci tiene ad aggiungere: “Sono scene delicate ma con un ritmo da seguire e con una certa tensione da mantenere. In questi casi, è importante che tutti lavorino bene, insieme e con gentilezza, in uno spazio sincero e sicuro“.

Sono orgogliosa di partecipare a un Festival del genere, soprattutto con così tante donne al comando. Le cose stanno cambiando

E a proposito di rapporti complicati, viene spontaneo domandarsi se la difficile relazione tra femminile e maschile di Babygirl richiami in qualche modo un’altra complessa relazione portata sullo schermo sempre da Nicole Kidman: quella tra Celeste Wright e Perry Wright (Alexander Skarsgård) in Big Little Lies di HBO.

È la medesima attrice a chiarire le cose: “Guardando Babygirl, ognuno potrebbe avere interpretazioni differenti. Io voglio sempre esaminare le donne sullo schermo, che cosa significa essere umani. Big Little Lies è molto diverso. Questo film mi lascia esposta e spaventata. Ma anche molto orgogliosa di partecipare a un Festival del genere, soprattutto con così tante donne al comando. Le cose stanno cambiando“.

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Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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Venezia 81: Pupi Avati torna al cinema horror con L’Orto Americano | Recensione

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La recensione del film “L’Orto Americano” – Newscinema.it

3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista de L’Orto Americano ha tutte le caratteristiche dei tipici personaggi di Pupi Avati: ha un candore e un’ingenuità tali da renderlo inadatto agli ambienti in cui si trova a vivere (che sia la provincia americana o la bassa padana) e soprattutto, essendo un romanziere che non è mai stato pubblicato, alle prese con un altro romanzo probabilmente destinato a rimanere anch’esso relegato nell’oblio, si inserisce in quell’ampio catalogo di sognatori insoddisfatti che il regista emiliano ha raccontato durante tutta la sua filmografia.

Si muove in una società che guarda con diffidenza chi racconta “storie”, che considera scrittori e narratori come dei bugiardi naturalmente predisposti a inventare e a ingannare. Ironicamente, si ritrova proprio ad indagare su di un caso – la sparizione misteriosa di una donna, data per morta – così aleatorio, data la scarsezza di prove e indizi tangibili, che non si può far altro che colmare le lacune con supposizioni, congetture, ipotesi.

Il giovane investigatore (un bravissimo Filippo Scotti) è uno che pensa che la realtà sia sempre troppo modesta, deludente e noiosa ed è per questo che ha l’abitudine di confidarsi con i morti, con le persone care che non ci sono più e che tiene sempre con sé in un vecchio raccoglitore di foto.

Immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che gli furono care lo tiene in vita e anche solo invocare i loro nomi lo fa sentire in un mondo già più grande di quello che è davvero.

L’Orto Americano: omaggio al cinema americano dei Cinquanta

Questo nuovo film di Pupi Avati, il primo in bianco e nero in una carriera estremamente prolifica, si confronta con il cinema che il regista ha amato in gioventù, quello americano degli anni Cinquanta che ha contribuito a plasmare il suo immaginario da regista.

L’Orto Americano, alla veneranda età di 85 anni, assomiglia infatti, con tutti i limiti del caso e tollerata una fastidiosa approssimazione in molti aspetti più tecnici, ad un film della maturità e non ad uno senile: un coraggioso tentativo di proseguire quel filone “americano” della sua filmografia che è sempre stato il più doloroso, disilluso, in cui veniva messo alla prova il sogno provinciale della “terra promessa” oltreoceano, saggiandone l’inconsistenza.

Anche ne L’Orto Americano, come in tutti i film di Avati, la Storia, in questo caso quella del secondo dopoguerra, lambisce soltanto il racconto, determinando il contesto entro il quale si dipanano i temi cari al regista: l’illusione e la delusione, la mortificazione inflitta dall’esperienza, la disperata resistenza ad ammettersi perdenti.

Ed è proprio quest’ultima a spingere il protagonista nella sua erratica ricerca, totalizzante e destinata fin dal principio a poter essere completata solo nel sogno, nella fantasia. Nella scrittura come nel cinema.

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Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta

Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.

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La recensione di Joker: Folie à Deux (Foto: warner bros.) – Newscinema.it

2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).

A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.

Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.

Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.

Joker: Folie à deux, un musical a metà

Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.

Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?

La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.

Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).

Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.

Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.

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