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Venezia 81: Maria, la conferenza stampa | Angelina Jolie rivela cosa ha in comune con Maria Callas

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Angelina Jolie Venezia 81
Angelina Jolie Venezia 81

Angelina Jolie a Venezia 81 per Maria (Foto: Ansa) – NewsCinema.it

Maria di Pablo Larraín è uno dei protagonisti della seconda giornata di Venezia 81. Abbiamo seguito la conferenza stampa del film con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher.

Senza dubbio, tra i film in concorso più attesi di Venezia 81 troviamo proprio Maria di Pablo Larraín. Il regista cileno, noto al grande pubblico per i suoi insoliti biopic femminili (Spencer con Kristen Stewart o Jackie con Natalie Portman), arriva al Lido con un nuovo spiazzante ritratto: quello di Maria Callas. La soprano di origine greca, viene in questo caso riportata in vita da Angelina Jolie, attesissima al Lido.

Durante la conferenza stampa di giovedì 29 agosto, oltre al regista e la protagonista, presenti anche Pierfrancesco Favino (Ferruccio Mezzadri) e Alba Rohrwacher (Bruna). Grande assente alla conferenza stampa Valeria Golino, che porta invece sullo schermo la sorella dell’icona della lirica, Yakinthi Callas.

Perché proprio Maria Callas? Pablo Larraín: “Perché no?”

Dopo Diana Spencer e Jackie Kennedy, perché ora proprio Maria Callas? “Perché no?“, risponde il regista. “Sono un fan dell’opera da quando ero bambino e mi intriga il fatto che non ci siano tanti film a riguardo. L’opera è una forma d’arte di enorme spessore. Quindi ho pensato di fare un film su una delle voci più importanti. Ringrazio Steven Knight, che ha scritto una bellissima sceneggiatura. Ovviamente, il film non sarebbe mai esistito senza Angelina“.

Il medesimo Pablo Larraín aggiunge: “L’illusione crea la fantasia che questi personaggi abbiano avuto vite pazzesche. Ma alla fine resti sempre da solo coi tuoi pensieri. E non è facile“.

Maria, il grande ritorno di Angelina Jolie

Il film di Pablo Larraín – terzo e ultimo titolo della sopracitata trilogia di donne iconiche – segna il ritorno di Angelina Jolie nella corsa verso i premi, su tutti gli Oscar. Ma più di ogni altra cosa, segna il ritorno dell’attrice sulla scena: “Negli ultimi anni, ho avuto bisogno di stare a casa con i miei figli. Oggi sono felice di essere qui. Sono grata di essere un’artista“.

Onestamente, mi chiedevo se sarei stata abbastanza per i fan di Maria e dell’opera

E proprio riguardo a Maria Callas, aggiunge: “Onestamente, mi chiedevo se sarei stata abbastanza per i fan di Maria e dell’opera. Mi sono allenata per mesi. Per fortuna Maria Callas ha insegnato, quindi ho ascoltato le registrazioni delle sue lezioni. Sono stata fortunata. Ho cercato di capire il suo lavoro fino in fondo, allenandomi ancora e ancora“.

Maria di Pablo Larrain a Venezia 81

Maria di Pablo Larrain a Venezia 81 (Foto: Ansa) – Newscinema.it

Angelina Jolie: “Mi sento vicina a Maria Callas. Ne condivido la vulnerabilità”

Inevitabili le domande sui gusti musicali. L’attrice hollywoodiana dice la sua: “Spero che questo film diffonda il valore dell’opera. Io amo tutta la musica, probabilmente ascolto i The Clash più di tutti. Più divento grande, più apprezzo la musica di quando ero giovane. Ma quando cresci e raggiungi un certo livello di amore e dolore, c’è solo un tipo di musica che può incapsulare tutto: l’opera“.

Sempre Angelina Jolie aggiunge: “Non so se Maria se n’è andata sapendo il segno che ha lasciato. I critici, alla fine, sono stati cattivi con lei. Penso che sia morta in solitudine e nel dolore. Mi sento molto vicina a Maria Callas, per motivi che non rivelerò in questa sala. Più di ogni altra cosa, ho condiviso la sua vulnerabilità“.

E proprio quando tra le domande spunta la parola “diva” – riferita alla soprano – la medesima attrice decide di puntualizzare: “È un termine che porta una connotazione negativa per le donne. Tramite Maria ho dato un nuovo significato al termine“.

Diva significa disciplina e concentrazione. Maria Callas era pretenziosa. Ma senza disciplina, non vai da nessuna parte

Il regista aggiunge: “Prima di diventare una diva, devi essere brava in qualcosa. Diva significa disciplina e concentrazione. È vero, Maria Callas era pretenziosa. Ma senza disciplina, non vai da nessuna parte. Pensate al cinema“.

Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher: “Onorati di aver preso parte al progetto”

Presente alla conferenza stampa anche Alba Rohrwacher, che interpreta Bruna, domestica della soprano. Seduta di fianco ad Angelina Jolie, e come sempre composta ma emozionata, ringrazia il regista per averla guidata nel percorso: “Devo tanto a Pablo. Mi ha davvero guidata in questo viaggio e devo ringraziare tantissimo Angelina, per aver condiviso il suo lavoro con me“.

Pierfrancesco Favino è stato invece più loquace nel parlare del suo personaggio, Ferruccio Mezzadri, che è stato per 22 anni autista e collaboratore domestico dell’icona della lirica Maria Callas. “Sapete che chiacchiero molto“, ha detto l’attore con ironia e raccontando quanto segue: “Ho capito molte cose sulle devozione di Ferruccio per Maria. Io e Pablo le abbiamo trasformate in quello di cui aveva bisogno il film. Ferruccio non avrebbe mai voluto che Maria morisse. Doveva restare una regina, una regina anche per il suo cuore. Mi sento onorato di aver avuto la possibilità di prendere parte a quest’opera“.

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Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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Venezia 81: Pupi Avati torna al cinema horror con L’Orto Americano | Recensione

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La recensione del film “L’Orto Americano” – Newscinema.it

3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista de L’Orto Americano ha tutte le caratteristiche dei tipici personaggi di Pupi Avati: ha un candore e un’ingenuità tali da renderlo inadatto agli ambienti in cui si trova a vivere (che sia la provincia americana o la bassa padana) e soprattutto, essendo un romanziere che non è mai stato pubblicato, alle prese con un altro romanzo probabilmente destinato a rimanere anch’esso relegato nell’oblio, si inserisce in quell’ampio catalogo di sognatori insoddisfatti che il regista emiliano ha raccontato durante tutta la sua filmografia.

Si muove in una società che guarda con diffidenza chi racconta “storie”, che considera scrittori e narratori come dei bugiardi naturalmente predisposti a inventare e a ingannare. Ironicamente, si ritrova proprio ad indagare su di un caso – la sparizione misteriosa di una donna, data per morta – così aleatorio, data la scarsezza di prove e indizi tangibili, che non si può far altro che colmare le lacune con supposizioni, congetture, ipotesi.

Il giovane investigatore (un bravissimo Filippo Scotti) è uno che pensa che la realtà sia sempre troppo modesta, deludente e noiosa ed è per questo che ha l’abitudine di confidarsi con i morti, con le persone care che non ci sono più e che tiene sempre con sé in un vecchio raccoglitore di foto.

Immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che gli furono care lo tiene in vita e anche solo invocare i loro nomi lo fa sentire in un mondo già più grande di quello che è davvero.

L’Orto Americano: omaggio al cinema americano dei Cinquanta

Questo nuovo film di Pupi Avati, il primo in bianco e nero in una carriera estremamente prolifica, si confronta con il cinema che il regista ha amato in gioventù, quello americano degli anni Cinquanta che ha contribuito a plasmare il suo immaginario da regista.

L’Orto Americano, alla veneranda età di 85 anni, assomiglia infatti, con tutti i limiti del caso e tollerata una fastidiosa approssimazione in molti aspetti più tecnici, ad un film della maturità e non ad uno senile: un coraggioso tentativo di proseguire quel filone “americano” della sua filmografia che è sempre stato il più doloroso, disilluso, in cui veniva messo alla prova il sogno provinciale della “terra promessa” oltreoceano, saggiandone l’inconsistenza.

Anche ne L’Orto Americano, come in tutti i film di Avati, la Storia, in questo caso quella del secondo dopoguerra, lambisce soltanto il racconto, determinando il contesto entro il quale si dipanano i temi cari al regista: l’illusione e la delusione, la mortificazione inflitta dall’esperienza, la disperata resistenza ad ammettersi perdenti.

Ed è proprio quest’ultima a spingere il protagonista nella sua erratica ricerca, totalizzante e destinata fin dal principio a poter essere completata solo nel sogno, nella fantasia. Nella scrittura come nel cinema.

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Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta

Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.

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La recensione di Joker: Folie à Deux (Foto: warner bros.) – Newscinema.it

2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).

A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.

Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.

Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.

Joker: Folie à deux, un musical a metà

Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.

Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?

La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.

Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).

Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.

Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.

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